venerdì 4 novembre 2011

"il LAVORO delle donne"


 



Le donne del 13 febbraio Siena
Comitato SeNonOraQuando?  laboratorio politico





Sabato 19 novembre 2011
Santa Maria della Scala - Piazza Duomo Siena
Sala Italo Calvino 9:30-18:30


workshop su:

il lavoro delle donne
una giornata insieme per 
condividere, riflettere, proporre


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Con il patrocinio del Comune di Siena

IL PROGRAMMA scarica il file >>
VOLANTINO scarica il file >>
Luogo dell'incontro: Santa Maria della Scala











Le relazioni introduttive dei tre gruppi di lavoro: 

Gruppo di lavoro su maternità/lavoro di cura, lavoro e stato sociale. 

Percorsi delle donne tra lavoro, maternità, cura. E lo Stato Sociale?

Possiamo immaginare le tre parole chiave Lavoro, Lavoro di cura/Maternità e Stato socialecome i vertici di un triangolo, lungo i lati del quale si muovono esperienze e desideri che danno vita ad un campo di interdipendenze complesso e denso. Ognuna di noi, per il semplice fatto di essere donna, deve muoversi all'interno di questo campo di tensioni, e i percorsi che disegnerà al suo interno sono fondamentali per la costruzione e lo sviluppo della sua soggettività di genere. In particolare, la possibilità di costruire un equilibrio armonioso tra i tre poli determina la qualità della vita di ogni donna dal punto di vista individuale, relazionale, familiare. Anche sul piano sociale la gestione dei tempi di vita assume un ruolo decisivo; rappresenta, infatti, una variabile imprescindibile perché sia realmente pensabile la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale a qualsiasi livello.Quella che desideriamo qui proporre è una riflessione sulle nostre parole chiave e sui percorsi che si muovono dall'una all'altra: cosa spinge dalla maternità al lavoro fuori casa e viceversa, come si costruiscono equilibri e cambiamenti, cosa sperimentiamo e perché, come ci aiuta o ci intralcia la declinazione italiana dello stato sociale? Vorremmo disegnare, insomma, una cornice all'interno della quale le esperienze di ognuna di noi possano, nel lavoro collettivo di questa giornata, trovare espressione e affermare il proprio senso politico. Dal racconto e dalla condivisione dei nostri percorsi ci interessa che emergano i bisogni, le aspettative e la formulazione di azioni politiche di cui si facciano carico la collettività e il governo.La prospettiva da cui vi proponiamo di guardare a questo denso campo di interdipendenze è, naturalmente, quello della specificità di genere.La maternità e il lavoro di cura sono esperienze con le quali una donna, per il solo fatto di essere donna, deve necessariamente confrontarsi. Essere nate in un corpo sessuato femminile significa imparare a relazionarsi con la nostra capacità riproduttiva che si impossessa, in modo pregnante durante tutto l’arco della vita, sia della nostra dimensione corporea che di quella psicologica, a differenza di quella maschile. Indipendentemente dal desiderio di rimanere incinta ognuna di noi, a partire dallo sviluppo, è richiamata una volta al mese a sentire e pensare la propria maternità potenziale e per tutta la vita dovrà continuamente riposizionarsi rispetto a questa sua condizione di corpo femminile. L'archetipo della maternità permea l'identità di genere, disegnando le donne come soggetti naturali di cura, indipendentemente dal fatto di essere effettivamente madri. Il lavoro di cura si configura come una moltitudine di azioni e pensieri anche piccoli, che spesso ci appaiono di poco valore, ma che invece costituiscono la struttura ossea del quotidiano, ciò che garantisce il procedere della vita di tutti e della società. Questo bagaglio di azione e pensiero, questa responsabilità rispetto agli altri e alla collettività, è stata storicamente ritenuta “cosa da donne”, e, nonostante le battaglie e le conquiste femministe, in Italia tale convinzione persiste oggi più forte e tenace che altrove. Si tratta di lavoro, un lavoro invisibile e non riconosciuto che marca la nostra condizione di disparità rispetto agli uomini. Diversamente da ogni altra forma di lavoro, anche quelle più precarie, non ha un riconoscimento politico e quindi la contrattazione avviene esclusivamente nella sfera privata.Il lavoro di cura, inoltre, richiede una disponibilità costante, non ha tempi, è potenzialmente continuo, entra negli spazi della vita privata e lavorativa, e la gratificazione in questa sfera sfugge alla presa, non può essere legata alla singola azione e allo stesso tempo, non esiste un confine preciso del suo compimento. Indipendentemente dal percorso di vita che cerca di costruire, con o senza il progetto di una famiglia, ognuna di noi farà i conti con il ruolo di genere dominante nella nostra società, quello di soggetto di cura e/o madre. Rifiutare l'opzione della genitorialità per una donna ha un costo emotivo ed espone ad una richiesta di giustificazione che non si danno nel caso maschile. Il ruolo di madre e di soggetto di cura ha uno spazio di interpretazione claustrofobico ed è esposto ad un controllo e giudizio sociale feroce; diversamente, l'interpretazione del ruolo maschile nella sfera della cura è accettata in qualsiasi sua declinazione, anche la più assenteista, sempre giustificata dal primato dell'impegno professionale. Se dunque, ancora oggi, è senza dubbio forte la proposta, continuamente aggiornata, di un modello normativo di femminilità legato al ruolo di cura, è tuttavia importante dirci in che misura abbiamo interiorizzato questo ruolo, in che misura lo abbiamo eletto a sfera della nostra realizzazione, talvolta di esercizio di potere, e in che misura, al contrario, riusciamo a porci criticamente nei suoi confronti. Il peso del lavoro di cura, proprio perché richiede un forte investimento in termini di tempo, energia, pensiero, si pone inevitabilmente in competizione con la possibilità di agire nello spazio pubblico, sia in termini di partecipazione politica e civile, che in termini di scelta e perseguimento di un percorso professionale. Il lavoro di cura e il lavoro retribuito si sottraggono tempo a vicenda. In questo senso le donne sono costrette a vivere come funambole, rischiando un senso di incompiutezza ed inadeguatezza su entrambi i piani. Inoltre, il doppio carico sulle spalle delle donne è qualche cosa che agli occhi del datore di lavoro e dei colleghi rende quest'ultime lavoratrici potenzialmente meno affidabili degli uomini. È all'interno di questa visione dell'imprescindibilità del ruolo di cura delle donne, che trovano spazio e legittimazione iniziative come la lettera di dimissioni in bianco, l'assegnazione di part-time involontari, la collocazione in posizioni sotto-qualificate rispetto al titolo di studio o, più in generale, la precarietà e la difficoltà di accesso al mercato del lavoro. Lo Stato sociale, che nasce a partire dal riconoscimento che determinati diritti debbano essere tutelati e presi in carico dallo Stato come garante di tutti i cittadini e le cittadine, nell'ambito di cui ci stiamo occupando dovrebbe funzionare da correttivo per una gestione dei tempi di vita che rispetti la totalità e la differenza del soggetto femminile. In Italia, tuttavia, lo stato sociale, piuttosto che sostenere la famiglia e i tempi di vita dei genitori, è sostenuto esso stesso dal lavoro di cura delle donne. I servizi all'infanzia nei primi tre anni di vita, ad esempio, sono disegnati e pensati in riferimento ad un contesto familiare in cui si dà per scontata la presenza, a casa, di un soggetto disponibile a farsi carico del lavoro di cura, e noi sappiamo chi è questo soggetto. Semplificando la complessità dell'argomento, si può dire che la prima strategia presa in considerazione, per rispondere a questa esigenza, è stata quella cosiddetta della “conciliazione”: in quest'ottica l'obiettivo è quello di aiutare le donne appunto a conciliare il lavoro retribuito con quello di cura attraverso alcuni servizi come gli asili nido, l'accesso ai quali è tutt'altro che scontato; i dopo-scuola, che stanno sparendo; e il part-time, spesso rifiutato quando muove dalle esigenze della donna. È evidente che un importante limite di questa strategia è quello di rimanere all'interno di una visione acritica della cura come destino esclusivamente e naturalmente femminile. Proprio in reazione a questo limite si è cominciato a discutere di “condivisione”: a partire dall'assunto che la cura non sia un lavoro per natura femminile, ma che tutti nella società possano e debbano farsene carico, si sostiene che lo Stato sociale debba elaborare azioni in grado di promuovere la condivisione di questa responsabilità tra uomini e donne, in una prospettiva di welfare che tuteli e sostenga le cittadine e i cittadini a prescindere dalla loro condizione lavorativa, come invece succede nell’attuale sistema. Le proposte in questa direzione includono il congedo obbligatorio di paternità a carico dello Stato, un più equo accesso ai congedi parentali, il riconoscimento dell’indennità di maternità a tutte le lavoratrici a prescindere dal rapporto di lavoro, l'ideazione di part-time a ¾ per entrambi i genitori, il riscatto pensionistico della maternità -solo per citare alcune iniziative. La prospettiva della condivisione richiede d’altra parte anche un lungo e capillare lavoro di cambiamento culturale, senza il quale regole nuove come quelle sopra citate non sarebbero sufficienti per infrangere ruoli così efficacemente proposti e incorporati. A noi sembra che la nostra sfida, oggi, sia proprio quella di mettere a fuoco proposte concrete nell'ottica di una “condivisione” capace di promuovere nuovi modelli nelle relazioni di genere, di scompaginare i ruoli tradizionali e di restituire alla cura valore e riconoscimento sociale. 
Giulia, Carla F., Lucia B., Simonetta, Lucia C., Sonia, Mariassunta

Gruppo di lavoro sulla decrescita.


Le opportunità della decrescita: immaginario, bisogni, pratiche buone per una nuova economia delle donne”
Qualche spunto di riflessione per il gruppo di lavoro


Sono la crescita e lo sviluppo gli unici strumenti per far fronte alla crisi che da anni attanaglia ormai il nostro paese e non solo? Forse no. O meglio, noi pensiamo di no.

Crediamo che sia arrivato il momento di provare a cambiare lo sguardo, elaborare nuovi paradigmi, nuove modalità di vivere e di costruire le nostre vite. Di pensare fuori dagli schemi economici classici, individuando un percorso alternativo non più vincolato ad uno sviluppo economico tradizionale, in perenne rincorsa di una crescita infinita incompatibile con le risorse finite del nostro pianeta.

E' questo il tema della decrescita: non un modello economico in senso classico, quanto piuttosto un tentativo creativo di rompere la retorica della crescita economica senza limiti per “offrire degli strumenti e […] trasmettere stili di vita che non sono omologati ma creati dai territori e dalle comunità. Propone un punto di vista che ritiene fondamentale riappropriarsi dello spazio e del tempo di ciascuna e ciascuno che viene valorizzato e qualificato.”1

La decrescita, per chi la sceglie, è un percorso impegnativo ma necessario per ripensare le proprie vite, per porre un argine alle gravi crisi ambientali, sociali ed economiche che stiamo attraversando, per uscire dalla logica del mercato che promette libertà ma veicola dipendenza.

E' una grande risorsa soprattutto perché rappresenta un’azione di destrutturazione dell’immaginario per reinventare desideri, valori, immagini, modelli, obiettivi che portano alla costruzione di un mondo nuovo, una società più umana, felice e serena di quella attuale.

La decrescita ci permette di sperimentare e testimoniare nuove forme di relazione tra i generi orientate al riconoscimento della differenza e al rispetto delle diverse soggettività per costruire, donne e uomini insieme, un pensiero e una società post-patriarcale.

Rispetto al tema del lavoro al centro della giornata di oggi, la decrescita offre una chiave di lettura originale. Siamo partite da alcune domande:

  • è pensabile un paese dove tutti iniziano a lavorare meno, guadagnare meno, ma in cambio hanno più tempo per la vita, per le proprie passioni, per i propri affetti? Questo libererebbe nuovi posti di lavoro, soprattutto per i giovani e le donne che al momento sono, specialmente in Italia, i più penalizzati da un mercato del lavoro ingessato e solo nominalmente flessibile?
  • è possibile mettere a sistema le risorse volontarie, altruistiche, dell’aiuto reciproco, del dono, sperimentali e alternative?
  • esistono esperienze concrete di forme di organizzazione del lavoro diverse da quelle dominate dalle ragioni della produttività, della competizione e del profitto?
  • è possibile immaginare una tutela del lavoro come bene comune “non fine a se stesso, ma […] funzionale alla qualità dell’esistere in un determinato contesto (ecosistema), da tutelarsi sia nei confronti del capitale privato (proprietà), sia del sistema politico (governo), che del capitale privato è sempre più frequentemente succube”?2 Quindi una rivalutazione del lavoro, non più inteso come una merce con un costo, ma come un bene comune dignitoso, tutelato e garantito a tutti.

Per costruire tutto questo è necessario rimettere al centro la relazione, la comunità, la responsabilità. Risorse che ci sono, ma sono ancora troppo spesso marginalizzate da un sistema che propone come vincenti modelli basati sull'individualismo, sul consumismo e sulla mercificazione.

I cambiamenti culturali richiedono tempo, energie, strategia e pianificazione. Serve confrontarsi, fare rete e scambiare le buone pratiche e le esperienze, anche quelle di minor successo, consapevoli che, come scrive Paolo Cacciari, “in attesa e in preparazione di questo grande processo di trasformazione, dobbiamo [...] essere non solo indulgenti ma capaci di capire che quella cultura consumistica - che giustamente critichiamo - in realtà copre bisogni profondi. E’ ad essi che noi dovremmo riuscire ad offrire una alternativa, se non vogliamo che la decrescita sia un modo di vita valido solo per esseri umani perfetti”.3



Novembre 2011

Ilaria, Barbara, Elena, Samantha, Antonella, Daniela, Patrizia, Silva



Bibliografia essenziale:

Il tempo della decrescita, S. Latouche e D. Hapagès (Eleuthera, 2011)

La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal Pil, M. Pallante (Edizioni per la decrescita felice, 2011)

Breve trattato sulla decrescita serena, S. Latouche (Bollati Boringhieri, 2008)

La scommessa della decrescita, S. Latouche (Feltrinelli, 2007)

Decrescita o barbarie, P. Cacciari (Carta, 2008 disponibile in pdf sul sito www.decrescita.it).

1 D. Degan Cambiamenti? Solo per amore. Tra crisi e decrescita. Conversazione con Daniela Degan on line su www.noidonne.org

2 U. Mattei Beni comuni, un manifesto, Laterza (2011)


Gruppo di lavoro su femminilizzazione e divisione etnica del lavoro.


Corpi di donne nel mercato globale: femminilizzazione e divisione etnica del lavoro.



Con questo titolo impegnativo abbiamo scelto letteralmente di aggredire il tema del lavoro focalizzando la nostra attenzione su concetti poco praticati (da qui l’aggressione) e per questo assenti spesso dalle riflessioni più consuete.

Eppure è evidente a tutte e a tutti che il corpo delle donne negli ultimi anni ha assunto un protagonismo sempre maggiore: uscito dalla casa è entrato a pieno diritto nella “polis” ed oggi assistiamo ad una femminilizzazione del lavoro, della politica, della vita sociale in generale, sia a partire dalla crescente presenza numerica delle donne in tutti i settori della società, sia come messa in atto di qualità e competenze femminili quali: capacità relazionale, capacità di ascolto e mediazione, affettività, politecnia, multifunzionalità, propensione alla cura. Queste doti sono ormai richieste oltre che dai servizi alla persona, dalle attività previdenziali, dalla scuola e dall’assistenza, anche dal sistema produttivo più in generale con particolare riferimento alle sue forme organizzative. Purtroppo però spesso la femminilizzazione in questa accezione ha dovuto fare i conti:

  • con la capacità del capitalismo e le esigenze del mercato di assorbire e riadattare a proprio esclusivo favore ogni tentativo di modifiche strutturali che incidano in negativo sui livelli di profitto
  • con la complicità di alcune, che prese dallo sforzo di farcela, hanno finito per essere schiacciate o sedotte dai modelli maschili.

A queste due prime letture del concetto di femminilizzazione del lavoro (maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro e trasferimento del femminile soprattutto nei modelli organizzativi), a nostro parere se ne deve aggiungere una terza ovvero la perdita di valore sia retributivo sia di prestigio che subisce il lavoro quando vede una accresciuta presenza femminile. Tale visione comporta anche la riduzione del lavoro nel suo complesso alle condizioni di precarietà e di carenza di diritti che ha da sempre segnato la condizione delle donne.

Presa per buona la prima definizione in quanto ovvia e ampiamente documentata, iniziamo a porci qualche domanda a partire dalla seconda.

Quali conseguenze può avere il riconoscimento e la valorizzazione del femminile nel mondo del lavoro?

Cosa potrebbero significare per le donne le trasformazioni che determina?

Molti possono essere i vantaggi.

Ad esempio, mettere al centro dell’organizzazione del lavoro le capacità relazionali e di cura delle donne permette senza dubbio di creare un nuovo paradigma organizzativo perché se la cura entra nelle organizzazioni del lavoro, questo consente di:

  • sperimentare pratiche di equità tra i generi (equità nella diversità)
  • sviluppare risorse umane consentendo a donne e uomini di mettere in gioco pienamente le loro rispettive competenze
  • inserire nei tempi aziendali i tempi sociali della vita
  • creare una cultura di attenzione ai bisogni di tutte e di tutti
  • trasmettere e condividere conoscenze ed esperienze
  • ed infine, per le donne in particolare, portare a valore competenze attraverso le quali realizzarsi mirando a sviluppi di carriera, ma senza stravolgere desideri


Se questo per noi è il senso del lavoro, possiamo ritenere questi i principi di un vero benessere organizzativo vantaggioso per uomini e donne e capace di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori e delle lavoratrici in ogni tipo di ruolo e funzione? La risposta ovviamente non è rivolta solo a noi, ma anche a tutti quegli attori che a vario titolo occupano lo spazio del mondo del lavoro (imprese,sindacato, istituzioni).



Ma veniamo all’altra definizione che abbiamo dato al termine femminilizzazione. Si può pensare che la maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro abbia fatto da apripista all’instabilità e alla precarietà occupazionali nonché all’implementazione del lavoro a basso costo?

E questo, cosa significa per le donne?



La crisi finanziaria attuale con la sua dinamica violenta, tutta rivolta alla ri-discussione di diritti che pur applicati in maniera diseguale, rappresentavano un punto di riferimento per la classe lavoratrice, sta estendendo all’intera categoria dei lavoratori le caratteristiche precarie e flessibili della condizione storica delle donne. E queste ultime all’interno di questo meccanismo, non solo sono la punta di diamante dello sfruttamento, ma sono doppiamente sfruttate perché più il modello della femminilizzazione in questa lettura, si approfondisce e più diventano dure le loro condizioni. (L’emancipazione malata – Corpi e lavoro ed. Libera Università delle donne)

Se, con un lavoro fisso, era difficile conciliare il tempo delle relazioni e degli affetti con il tempo per la produzione dei beni, cosa succede al corpo di una donna nel momento in cui si scardina completamente il tempo della sua vita e si introduce attraverso il lavoro, essenziale passaggio emancipatorio, il laceramento della precarietà? Come può oggi una giovane donna mantenere e realizzare il progetto di maternità nella dimensione che le si offre di lavoro-non lavoro?



Ma la crisi, momento di rottura di modelli già sperimentati e tragicamente falliti, può rappresentare forse un’opportunità per intraprendere nuove forme di organizzazione del mercato del lavoro che ripartano dai bisogni e dai desideri delle donne e degli uomini.

Presa coscienza del fatto che le risorse sono limitate, che i consumi non portano alla felicità, che il valore del lavoro non si misura esclusivamente attraverso la sua retribuzione, ma si nutre di relazioni e necessita di senso, quali potenzialità potrebbe esprimere il patrimonio di conoscenze e di saperi delle donne in un progetto di cambiamento?



Aggiungiamo che quando si parla di femminilizzazione del lavoro, é sotto gli occhi di tutte e di tutti che negli ultimi anni le nostre case sono andate via via “riempiendosi” di corpi, lingue, cibi, voci fino a poco fa estranee anzi in molti casi racchiuse nell’immaginario esotico che spesso accompagna, soprattutto per le persone più anziane, “quello o quella che viene da un altro posto”. Presenze in grandissima parte femminili perché migliaia di donne dai paesi impoveriti partono verso quelli arricchiti, primi anelli di quella che è stata chiamata la catena globale della cura: una serie di legami personali tra donne attraverso il mondo, basati sul lavoro di cura pagato e non pagato.

Il lavoro di cura è uno dei temi centrali, ma poco indagati, per costruire equità di genere e diritti: é evidente che una delle cause per cui il tema del welfare non viene affrontato con la giusta attenzione e determinazione sta nel fatto che questo lavoro è da sempre affidato al ruolo sociale femminile. Siamo anche fortemente consapevoli che la presenza di tante donne immigrate accentua i connotati di questo lavoro: il suo essere un lavoro servile, restando un affare di donne. La nostra emancipazione infatti passa attraverso la delega ad altre donne, bloccando:

  • il nostro processo di condivisone del lavoro di cura con gli uomini
  • un giusto sviluppo del welfare
  • il riconoscimento delle competenze culturali e professionali delle migranti, costrette al contrario dentro il doppio stereotipo di badanti o prostitute.

Su questi punti potrebbe nascere un’alleanza tra donne native e migranti, in grado di riequilibrare le asimmetrie di partenza e dare l’avvio alla costruzione di una cittadinanza piena e sostanziale per tutte.

Novembre 2011 Albalisa, Costanza, Gianna, Rossella, Serena




 

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